La primaria funzione che le fibre hanno avuto sin dalle loro antiche applicazioni, aggiunte all’impasto del calcestruzzo, è quella di contrastare le tensioni interne che si innescano spontaneamente in un manufatto durante l’indurimento o maturazione; in questo caso ci si riferisce a fibre ausiliarie (altrimenti dette antifessurative). L’azione antifessurativa è stata per secoli la principale applicazione delle fibre per calcestruzzo. Da qualche tempo alle fibre ausiliarie si sono affiancate anche le fibre strutturali, le quali non intervengono solamente in fase di indurimento dell’impasto, ma contribuiscono anche quando il calcestruzzo ha raggiunto la piena maturazione, migliorandone le prestazioni. Nei paragrafi successivi, per brevità, si farà riferimento a quella che è stata, per vari motivi (primo fra tutti la cronologia), la prima funzione delle fibre per calcestruzzi, quella antifessurativa, che è comune sia alle fibre ausiliarie che a quelle strutturali. Queste ultime, non solo vantano la capacità di prevenire ed arrestare il fenomeno fessurativo, ma possiedono una robustezza tale per cui possono sobbarcarsi anche carichi più importanti, di natura strutturale.
Per completezza, partiremo dando una definizione all’ovvio: perché le fessure e le crepe dovrebbero essere dannose o semplicemente indesiderate? Sostanzialmente per sei motivi principali.
- Riducono o compromettono la resistenza del manufatto
- Riducono o compromettono la “durabilità” dell’opera
- Sono sgradevoli esteticamente
- Possono essere causa di infiltrazioni d’acqua
- Espongono l’armatura all’azione di agenti chimici che la possono intaccare
- Peggiorano la capacità di isolamento termico del manufatto (nel caso di una parete)
Nei prossimi paragrafi si esploreranno il più semplicemente possibile, ma nondimeno in modo rigoroso ed esauriente, le ragioni per cui un materiale qualunque ha certe caratteristiche meccaniche e non altre, in special modo relativamente a resistenza e tenacità. Si dimostrerà infine, nel caso del calcestruzzo, come le fibre vanno ad interagire con la struttura del conglomerato cementizio, rendendola più tenace e più resistente alla frattura fragile.
Genesi delle fessure
Il calcestruzzo tende inevitabilmente a sviluppare degli assestamenti da ritiro durante la fase fluida/plastica (durante la quale l’impasto è strutturalmente molto debole). Il ritiro, che in caso di manufatti in calcestruzzo senza vincoli potrebbe anche non essere un fenomeno tanto pericoloso, lo diventa necessariamente in presenza di vincoli o contrasti, cioè nella quasi totalità dei casi. Il ritiro in presenza di contrasto infatti induce necessariamente tensioni strutturali autogene, che se non correttamente gestite danno luogo ad effetti indesiderati.
Il ritiro è sostanzialmente dovuto a due azioni combinate: il ritiro autogeno ed il ritiro da essiccamento, detto anche ritiro igrometrico. Il primo è dovuto alla reazione di idratazione del cemento, la quale è una reazione cosiddetta a “debito di volume”. Questo significa che, in termini puramente di volume, la somma degli elementi reagenti è inferiore alla somma degli elementi risultanti dalla reazione. Il secondo effetto invece è dovuto semplicemente all’evaporazione dell’acqua di idratazione in eccesso contenuta nel calcestruzzo fresco (cioè la differenza tra l’acqua totale inizialmente nell’impasto e l’acqua chimicamente “combinata” nella reazione di idratazione). In generale, queste due diverse azioni sono semplicemente dette “ritiro plastico“, in virtù del fatto che esse concorrono allo stesso risultato, il quale è più accentuato durante le prime fasi di maturazione del conglomerato, quando esso cioè è ancora in fase plastica, e decresce via via che la maturazione va a compimento.
Gli effetti del ritiro autogeno sono di molto inferiori a quelli del ritiro igrometrico, quindi è possibile approssimare il ritiro plastico complessivo al solo ritiro da essiccamento. Si noti che il fenomeno della fessurazione per cause igrometriche non è certo un fatto anomalo o un’esclusiva dei calcestruzzi.
Il ritiro plastico igrometrico rappresenta la casistica base per cui le fibre antifessurative vengono usate. Ma le fessure in realtà possono avere molte altre cause oltre a quelle auto-indotte dal calcestruzzo stesso durante la maturazione. Tra queste, se ne possono identificare alcune dovute alla geometria del calcestruzzo posato in opera, altre relative ad una incorretta progettazione della struttura, ed altre ancora invece dovute a fattori esterni.
Per quanto concerne le cause progettuali, esse banalmente dipendono dalla non adeguata previsione dei carichi statici e dinamici che il manufatto in calcestruzzo dovrà sostenere. Una struttura dimensionata per sostenere determinati carichi e che si trovasse a sostenere carichi maggiori potrebbe dar luogo a cedimenti, o nei casi peggiori a crolli. Questo è evidente: una strada dimensionata per sopportare una bicicletta non potrà certo resistere al transito di un carro armato! Va aggiunto che nella maggior parte dei casi in cui vi siano vizi progettuali di un certo rilievo, le fessure sono certamente l’ultimo dei problemi.
Tra le cause dovute alla geometria, le principali sono le variazioni di spessore della sezione e la presenza di spigoli e cunei. La ragione per cui cambi di spessore troppo marcati possono essere causa di fessure e fratture, è che nei calcestruzzi a legante idraulico l’indurimento avviene dall’esterno all’interno, quindi nel caso di diverso spessore si avrebbero tensioni di ritiro che, oltre all’effetto classico di trazione lungo il profilo del manufatto, produrrebbero anche delle tensioni di taglio e di flessione che insistono sulla zona interna ancora in fase plastica. Un’altra situazione tipica in cui (se non adeguatamente gestita) è possibile riscontrare fessurazioni dovute alla geometria del manufatto, sono la presenza di spigoli. Anche in questo caso la presenza di un cuneo indebolisce localmente la struttura e contestualmente accentua lo sforzo che essa deve sostenere, facilitando la formazione di crepe e rotture.
Le cause dovute a fattori esterni sono innumerevoli. Tra le tante possiamo citare a titolo di esempio la non corretta stagionatura del calcestruzzo, la presenza di forti escursioni termiche, la presenza di vibrazioni che si trasmettono attraverso il manufatto, la presenza di eccessivi assestamenti, ecc.
Dinamica fessurativa
Cosa dà alle fibre questa caratteristica antifessurativa e perché mai dovrebbero aiutare il calcestruzzo a sopportare le tensioni da ritiro? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo capire cos’è una fessura e che conseguenze comporta all’interno di un manufatto di calcestruzzo (come del resto in qualunque altro materiale).
Il primo ed importante concetto è quello della concentrazione di sforzo all’apice di una fessura, teorizzato nel 1913 dal professor C. E. Inglis. Prendiamo dunque il caso di un provino di calcestruzzo (il concetto ovviamente è estendibile a qualunque materiale) e sottoponiamolo a sforzi di trazione, come quelli generati dalle tensioni di ritiro. Il materiale sarà percorso da queste tensioni lungo tutta la lunghezza, trasferendosi tra le due estremità del provino. Possiamo schematizzare il fenomeno come se il corpo fosse attraversato da linee di flusso. In questo stato, se al provino è applicata una frattura, si tenderebbe a pensare che, in corrispondenza del difetto, la restante sezione non fessurata del materiale semplicemente si fa carico di sostenere le tensioni che lo attraversano, in maniera uniforme. Questo è del tutto inesatto: Inglis teorizzò che esattamente in corrispondenza dell’apice della fessura (si parla addirittura di distanze molecolari) il materiale è sottoposto a sforzi che sono moltiplicati di varie volte rispetto alle tensioni medie applicate al provino.
Il fattore di moltiplicazione (K) teorizzato da Inglis è circa pari a:
dove l è la lunghezza della fessura (o se vogliamo la sua profondità) e R è il raggio dell’apice.
La formula precisa è leggermente diversa da questa ed è stata teorizzata per una fessura con apice di forma sferica o ellittica, cosa non del tutto realistica, anche se si è verificato sperimentalmente che in realtà questa formula è un’ottima approssimazione per qualunque altra forma.
Considerando un provino di vetro il quale presenta una micro-fessura superficiale di 2 millesimi di millimetro di profondità e il cui raggio all’apice sia di 0,1 milionesimo di millimetro (queste micro-fessure superficiali non sono affatto rare, al contrario esse sono tipiche nel vetro), avremo che per qualunque carico di trazione applicato al provino, il materiale in un determinato punto si troverà a sopportare sforzi localizzati addirittura 200 volte maggiori!!
Una distinzione doverosa a questo punto è anche tra materiali duttili (tipicamente i metalli) e materiali fragili (vetro, ceramica, calcestruzzo, ecc.). La duttilità è la capacità di deformarsi sotto sforzo, prima di giungere a rottura. Questa caratteristica è anche strettamente legata al concetto di tenacità, ovvero la capacità di un materiale di dissipare energia durante la deformazione plastica. Uno dei motivi principali per cui il vetro si rompe come sappiamo è che essendo un materiale fragile, al pari del calcestruzzo, nel quale non si hanno deformazioni plastiche, una fessura ha sempre un raggio all’apice estremamente piccolo, qualunque sia la sua profondità. Il fattore di moltiplicazione diventa quindi elevato già a partire da fessure microscopiche. Un diamante, per quanto possa essere il materiale più duro e resistente alle scalfitture conosciuto in natura, andrà in frantumi con una martellata ben assestata, dato che è comunque un materiale fragile.
I materiali duttili invece, se sottoposti a sforzi che possano mettere in crisi i legami che tengono insieme la materia stessa, reagiscono deformandosi plasticamente, dissipando quindi energia. Questa loro proprietà, fa sì che in presenza di una cricca, l’apice di questa verrà deformato dall’intensificazione degli sforzi, aumentandone il raggio e alleviando la concentrazione stessa delle tensioni.
Vi starete chiedendo: “ma allora, se è vero che il calcestruzzo è fragile, perché è da ‘sempre’ il materiale da costruzione per eccellenza”? Acuta osservazione. Molto semplicemente: facendolo lavorare in compressione e non in trazione! Oppure posandolo in combinazione con armature d’acciaio, tenaci e resistenti alle trazioni. Oppure ancora, nei casi in cui proprio non si possa fare a meno di avere sollecitazioni in trazione, seppur lievi rispetto agli sforzi in gioco, utilizzando accorgimenti per combattere le fessurazioni, in primo luogo additivando il calcestruzzo con fibre.
Uno dei pionieri della meccanica della frattura è stato sicuramente l’ingegnere A. A. Griffith, il quale nel 1920 formulò uno dei modelli fondamentali di questa disciplina. Il colpo di genio di Griffith fu quello di affrontare la dinamica fessurativa nei materiali con un approccio energetico anziché basato su forze e tensioni.
Egli intuì che nella fase di propagazione di una fessura si compie un lavoro (detto appunto lavoro di frattura) per generare nuove superfici e rompere i legami molecolari e atomici del materiale. Nell’ipotesi di un corpo che si sta deformando elasticamente e nell’ipotesi che gli effetti dell’energia cinetica delle parti fratturate siano trascurabili, questo lavoro di frattura (che assorbe energia) viene alimentato a spese dell’energia elastica immagazzinata nel materiale sottoposto a sforzo di trazione.
Da questo punto di vista, quindi, la concentrazione degli sforzi di Inglis non è che un meccanismo per trasformare l’energia di deformazione in energia di frattura, e la condizione affinché una cricca si propaghi è che l’energia di deformazione elastica per unità di superficie sia maggiore della energia richiesta per formare nuove superfici.
Tornando ad analizzare il nostro provino di calcestruzzo, notiamo che le zone di esso che rilasceranno energia elastica sono quelle indicate in figura: due triangoli all’interno delle facce della fessura. Griffith ha notato che l’area complessiva di quei triangoli varia con il quadrato della lunghezza della fessura, e quindi anche la quantità di energia di deformazione liberata.
D’altro canto, il lavoro di frattura aumenta proporzionalmente alla lunghezza di frattura. Tradotto in pratica, questo vuol dire che per fessure piccole, la propagazione della fessura è un processo energeticamente dispendioso e non avviene spontaneamente. Superata una certa lunghezza critica, però, la propagazione libera energia che da quel momento diventa un processo spontaneo, che si autoalimenta e dunque brutale.
La lunghezza critica è definita quantitativamente con questa espressione:
dove W è il lavoro di frattura, E il modulo elastico di Young e “σ” è la tensione applicata in trazione.
Il lavoro di frattura ed il modulo elastico sono proprietà intrinseche del materiale, mentre la tensione è ovviamente un fattore esterno.
Arresto delle fessure
Fino ad ora, abbiamo capito come si genera una fessura, e abbiamo capito anche quali sono le condizioni affinché essa si propaghi nel materiale. Ora vediamo cosa si può fare per arrestare una fessura e fare in modo che essa non dia luogo ad una completa rottura del materiale, propagandosi in modo incontrollato.
Partiamo col dire che per un materiale tenace come l’acciaio o i metalli in genere, questo è abbastanza semplice in virtù di un lavoro di frattura (W) che si aggira grosso modo dai 10.000 ai 1.000.000 J/m².
In questi casi, dunque, a differenza di un materiale fragile, una cricca dovrà essere parecchio lunga (a volte di metri!) per poter dar luogo ad una propagazione spontanea. In un materiale fragile però il lavoro di frattura di per se non è molto elevato. Prendiamo il caso del vetro: è un materiale che avrebbe una resistenza teorica alla trazione incredibilmente elevata, se non fosse che essendo così drammaticamente fragile, una qualunque fessura infinitesimale (sulla superficie del vetro normalmente ce ne sono a migliaia) fa crollare la sua resistenza. Tramite sofisticati esperimenti di laboratorio, si è dimostrato che fibre di vetro estremamente sottili (dell’ordine di pochi millesimi di millimetro) e quasi totalmente prive di fessure hanno resistenze di oltre 60.000 Kg/cm²!!
Per fare un paragone, gli acciai ad alta resistenza superano di poco i 20.000 kg/cm².
Come è possibile migliorare sensibilmente la tenacità di un materiale che normalmente è molto fragile? La risposta è suggerita dalla vetroresina che è un materiale composito, formato da piccole fibre di vetro (catastroficamente fragile) immerse in una matrice di resina indurita (leggermente meno fragile del vetro, non di molto). Come è possibile dunque ottenere un composto così tenace, da poterci costruire addirittura gli scafi delle barche, semplicemente unendo vetro e resina? Ebbene, la risposta è racchiusa in ciò che viene definito “trappola di Cook-Gordon”.
J. Cook e J. E. Gordon studiarono negli anni ’60 cosa accadeva alle fessure in un solido in materiale composito. La loro attenzione si rivolse in particolare alla fessura in propagazione quando sta per raggiungere la zona di separazione tra i due componenti del materiale. Trovarono che, per un complicato equilibrio di forze in gioco, in corrispondenza dell’apice di una fessura, non solo si hanno forze di trazione in direzione perpendicolare alla fessura (quindi nella direzione dello sforzo applicato all’intero corpo) che tendono ad allargare ulteriormente la fessura, ma sono presenti anche tensioni in direzione parallela alla fessura. Queste ultime sono più acute non in corrispondenza dell’apice ma bensì poco sotto (si veda la figura), ed inoltre sono sempre circa un quinto di quelle perpendicolari, in termini di intensità.
Cook e Gordon si resero conto che in un materiale composito, quando la fessura in propagazione sta per raggiungere la zona di separazione tra i due componenti del materiale, le forze parallele alla fessura molto spesso tendono a separare tra loro i due materiali. Questo meccanismo crea una seconda microfessurazione sul cammino della fessura principale; quando questa, nel propagarsi ulteriormente, incontra la nuova micro-fessura indotta (disposta perpendicolarmente alla prima), ne viene intrappolata. Riprendendo la formula di Inglis, è come se ora la fessura avesse un raggio molto maggiore, e quindi il fattore di moltiplicazione degli sforzi all’apice della fessura crolla bruscamente, alleviando le tensioni localmente e arrestandone la propagazione.
Si potrebbe obiettare che in questo modo si è arrestato una prima fessura, creandone una seconda… Sebbene questo sia vero, è anche vero che la tendenza a propagare di una fessura disposta parallelamente alla tensione è generalmente nulla. Quindi il sistema si stabilizza e la fessurazione si interrompe.
Azione delle fibre
Ora che abbiamo identificato cause, dinamiche e possibili rimedi al problema delle fessurazioni, l’ultimo passo da compiere è illustrare come le fibre possano contribuire a migliorare le prestazioni meccaniche (e non solo) dei manufatti in calcestruzzo.
Innanzitutto le fibre per calcestruzzo intervengono proprio nella prima fase di maturazione (fino a circa 10 ore dalla posa in opera), quando il calcestruzzo è ancora plastico, e il ritiro complessivamente è più marcato. In questo contesto, il conglomerato cementizio potrebbe non avere la capacità strutturale di opporsi alle tensioni che si generano al suo interno: si vengono così a formare crepe e fessure. La proprietà antifessurativa delle fibre, dunque, agisce in questa fase iniziale, aumentando la resistenza iniziale del conglomerato in via di solidificazione, intervenendo prima ancora che le fessure si creino.
Qualora alcune fessure debbano comunque generarsi, per uno qualunque dei motivi già elencati in precedenza, le fibre saranno comunque di grande beneficio, in quanto vanno a costituire una sorta di reticolo tridimensionale che aiuta a distribuire meglio gli sforzi che attraversano l’opera in calcestruzzo, aumentando la resistenza del manufatto stesso sia quando esso è perfettamente sano, sia qualora vi dovessero essere delle micro-fratture (anche interne). In tal caso, infatti, in presenza di un calcestruzzo adeguatamente fibro-rinforzato, la fessura sarebbe attraversata da un fascio di fibre che crea una sorta di continuità strutturale, la quale andrebbe ad alleviare le sollecitazioni sul calcestruzzo stesso, specialmente in corrispondenza dell’apice della fessura.
E non è tutto: il reticolo 3D creato dalle fibre, nel caso delle fibre strutturali, consente di avere una certa resistenza anche qualora il calcestruzzo si fosse del tutto fratturato, proprio in virtù dei filamenti che attraverserebbero la rottura capaci di sostenere limitati carichi strutturali (questo solamente per alcuni particolari modelli di fibre).
Infine, le fibre hanno una caratteristica formidabile, cioè quella di creare moltissime micro-superfici di separazione tra fibra e matrice cementizia, disperse in tutto il volume del manufatto e orientate in tutte le direzioni. In presenza di una fessura in propagazione (cosa non infrequente, data la caratteristica fragile del calcestruzzo indurito), esse vanno a costituire una miriade di piccole trappole di Cook-Gordon nel momento in cui la fessura dovesse incontrare la fibra lungo il suo tragitto, molto spesso arrestandone l’avanzamento con successo.
E’ chiaro dunque che le fibre, anche se certamente non possono essere la panacea di tutti i mali che troppo spesso affliggono le costruzioni in calcestruzzo, possono contribuire a migliorarne sensibilmente alcune caratteristiche e a prevenire svariati difetti intrinseci del materiale.